Tra “Vivo sospesa” e “Anima di vento” corrono due anni che sembrano pochi ma possono essere un mondo. Nathalie in qusti 24 mesi è cresciuto, artisticamente e umanamente, e non ha paura a mettersi in gioco raccontandosi. Il disco è di 12 canzoni, delle quali due in inglese, e raccoglie le collaborazioni con Raf, Franco Battiato e Toni Childs. Note Spillate la ha incontrata a Milano.
Nathalie cominciamo dagli ultimi due anni: che ha fatto?
Sono stati due anni di riflessione e scrittura, essendo anche autrice avevo bisogno di tempo.
Anche su come è cambiata la sua vita?
Soprattutto. Fare un punto della situazione, rileggere tutto ciò che mi era successo: due esperienze come X Factor e il Festival di Sanremo mi hanno cambiato la vita, mi hanno fatto raggiungere pubblico più vasto.
Quale è stato il momento più difficile?
Ho avuto bisogno soprattutto dopo X Factor di riallinearmi con la percezione mia di me e anche degli altri di me. Dovevo guardarmi dentro e fuori, non proprio un reset ma un f5, come nei computer, per capire chi sono, delineare la mia identità. Se no le esperienze non si allineano. Composizione e scrittura sono elaborazione dell’esperienza come quello che respiri, quello che un paese vive.
Dove si colloca?
Mi sento molto anni Settanta, cresciuta con la musica dei miei genitori: Francesco De Gregori, Fabrizio De Andrè, Lucio Battisti, Cat Stevens, i Beatles: quella realtà mi ha molto influenzato.
Perché?
Hanno dipinto un mondo attraverso il loro sguardo in maniera onesta, hanno raccontato la loro verità. Possiamo intervenire fino a un certo punto con la musica.
Si sente a suo agio in questa epoca?
Ho 33 anni e mi sento figlia di questa generazione. Ci sono aspetti di disillusione. Rispetto agli anni Ottanta e alimento la speranza: la mia e le generazione che verranno devono ridisegnare il futuro. Nel macro cosmo bisogna chiudere un cerchio e fare il punto della situazione.
Oltre alle musiche dei genitori che ascoltava da adolescente?
will i am, Pearl Jam, Tori Amos, Kate Bush, Joni Mitchell, Skunk Anansie. Sono sempre andata su un genere più rock e cantautorale che racconta la propria epoca in modo diverso. Ma serve pure la leggerezza degli One Direction. Il problema è che in Italia è difficile fare musica: c’è poca attenzione sugli ascolti e troppa fretta. Non c’è più sacralità dell’oggetto-disco.
La canzone che titola il disco?
La dedico ai miei nipotini. Nel loro sguardo mi sono rivista dall’infanzia a oggi. Una immagine visionaria, alla Guccini di “Il vecchio e il bambino”: momenti di vita di un individuo, le proiezioni del futuro. Sono visuale e visionaria: vedo immagini nella mente.
Scrive molto?
Vado a periodi, possono giungere anche tre idee nello stesso giorno. Poi serve la decantazione. Alcuni brani resteranno per sempre nel cassetto e a oggi non ho ceduto nulla a nessuno.
Cosa racconta “Dall’inizio è la fine”?
La facevo dal vivo già prima di pubblicarla. E’ coerente con l’idea altalenante dell’album, racchiude riflessione e concretezza. Lo chiamo il mio pezzo punk al pianoforte. C’è una rabbia viscerale.
Sembra più articolato questo secondo disco.
Il primo è stato veloce, istintivo, questo è più mio, più posato, ho fatto decantare le cose. Una maggiore forza vocale riflette la mia crescita. L’interpretazione è più precisa.
I duetti?
Sono nati in maniera differente. Con Raf avevo già collaborato in “Numeri”, c’era anche Frankie HiNRG. Con Raffaele ci sono stima reciproca e amicizia e ho pensato alla bellezza di uno scambio artistico. Toni Childs è anglofona e perfetta per un brano bilingue. Ha una voce saggia ed evocativa, ha dato introspezione e profondità al testo. Infine Battiato: mi ha influenzato il suo mondo musicale, lui mi ha ispirato come integrità artistica. Ho aperto suoi concerti, è sempre disponibile per consigli, gli ho fatto ascoltare brani e mi ha stupito che abbia accettato di condividere una mia canzone.
L’inglese la porterà all’estero?
Scrivo direttamente in inglese. Mi piacerebbe andarci ma il mio non è un ragionamento per andare all’estero. E’ un aspetto che è molto presente. La metrica inglese è più fluida. L’italiano garantisce più possibilità a livello poetico.
Tour?
A novembre si parte in concerto.
Lei ha lavorato all’album negli studi di Abbey Road, gli stessi dei Beatles.
E’ come salire sul palco dell’Ariston, è la storia. Ho respirato magia: sulle paretici sono le foto di Kate Bush, di Genesis e Beatles poi incontri Jeff Beck al bar. Il risultato tecnico è straordinario.
Ha fatto la foto sulle strisce pedonali?
No, c’è un mucchio di traffico, altro che vuoto come in certi scatti. Me ne sono resa conto la sera stessa che non c’era neanche una foto ma tutti stavamo su una nuvoletta emozionale.
Cosa ha portato a casa?
Lì fai il vinile, lo lavorano: entra lucido e vergine ed esce sporco e con le mie canzoni.