Doppia data, ieri sera e stasera, all’Alcatraz di Milano per i Club Dogo, una delle crew hip hop più amate d’Italia. Jake La Furia, DonJoe e Gué Pequeno hanno infiammato i fan. Vi raccontiamo la serata, la prima. E stasera si bissa con un altro tutto esaurito
Non conosco molto la cultura rap. Ho iniziato ad ascoltare quel genere così lontano da me, troppo tardi se consideriamo l’età media dei fruitori hip hop. Ammetto la mia ignoranza in campo e metto le mani avanti come atto dovuto. E’ la curiosità, ciò che mi ha mosso ieri ad assistere al live meneghino del Non siamo più quelli Mi Fist Tour dei Club Dogo. Che il mondo rap sia un universo parallelo, lo capisci appena entri all’Alcatraz. E’ un pianeta fatto di codici, un po’ come l’indie, l’heavy metal, il rock. E’ un luogo che implica un certo dress-code e tracotanza. Ammetto che nei miei jeans a vita altissima hipster style, mi sono sentita a disagio. Mi è sembrato talvolta di fare un tuffo nel passato quando, da ragazzina, ti confrontavi con un gabber o un tamarro D.O.C., tu una mezza punk. Ma la cultura rap va oltre lo scevro vestiario.
Iniziamo con il dire che il salto di Non Siamo Più Quelli di Mi Fist, rispetto agli album precedenti dei Dogo, è lampante anche sul palco. L’m.p.v Don Joe, fa della sperimentazione il cavallo di battaglia, un orecchio in Italia e l’altro che ascolta le frequenze oltreoceano. Jake e Guè fanno il loro tra occhiali da sole e rime provate e riprovate. Purtroppo, causa impianto audio non ottimale, chi sostava in fondo alla venue non ha potuto gustare mezza sillaba. Ecco il motivo di una non-recensione di un live, ma una riflessione generale. In primis, ho capito che c’è rap e rap. Nato tra i sobborghi o per strada, era il genere che deteneva il disagio sociale dei ragazzi, era quello che declamava slogan per una rivoluzione o solo un cambiamento.
Ecco quella forma di rap c’è ancora, forse più moderata, perché risulta assurdo parlare di povertà se giri con una collana al collo da 800 carati. A questo, per contro, si contrappone l’hip hop da passerella, quella dei brani scontati, quella di racconti che citano frasi popolari, quelli che denotano un occhio che strizza verso il qualunquismo, dove per esserci devi esagerare da un lato e ammiccare dall’altro. Si tratta di capire chi e cosa vuoi essere da grande. Un po’ come il pop o il pop-rock, c’è chi costruisce un testo e chi usa rime facili da banco elementare. C’è Battisti e c’è D’Alessio, per capirci. Si tratta di capire a chi ti stai rivolgendo e cosa vuoi comunicare. Se a live di Emis Killa ci sono bambini di sei, sette anni che cantano di pratiche sessuali e sostanze stupefacenti, beh “Huston abbiamo un problema”.
Poi, arrivano i Dogo e capisci che il compromesso esiste. Da un lato trovi PES, dall’altro ci sono le amare Lisa, Un’altra via non c’è e Soldi in cui si riflette sul lao oscuro del denaro. Nel mezzo, tra le due fazioni, il fitto punchline di Sayonara. E se il rap è il nuovo cantautorato 2.0, proviamo a pensare ancora una volta al significato della parola meritocrazia, cercando di scoprire chi ha un contenuto o qualcosa da raccontare, e chi è lì in piedi con tatuaggi in mostra un bel visino, addominale scolpito con testi spessi quanto una velina. La scena dovrebbe riflettere su che direzione voglia prendere, accettando la sfida con se’ stessa. Dall’altro lato della medaglia, i fruitori dovrebbero imparare a discernere il contenuto dalla forma palpabile. Rivisitando un brano di Jo Squillo: “oltre il tatoo c’è di più”. Generazione cosciente più che generazione boh, è questo ciò a cui auspico. I Club Dogo sono l’equilibrio su questa bilancia di rime, sanno ammiccare ma con contenuto, sperimentano collaborazioni improbabili. I Dogo spingono il bit e le parole cercando di far riflettere oltre che cantare a memoria come ripetitori di stazione, attraverso sillabe non sempre facili da digerire.